trevor Cultrou

racconto

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  1. pierangelo consoli
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    Il signor Cultrou lavorava alla società dei telefoni.
    Ci lavorava da quanto? Due anni a dicembre. Prima di quello a-veva venduto macchine. Poi lo avevano licenziato. Non era riusci-to a spiegare quel grosso buco sulla tappezzeria della Sauber ros-sa che nessuno voleva comprare. Il signor Zamisky non lo aveva in gran simpatia, questa era la verità. E l’antipatia era reciproca. Al signor Zamisky bastava sapere che lui fosse un fumatore e che fumasse nelle macchine coi clienti, gli bastava sapere che quel mese non era riuscito a piazzare nemmeno una cazzo di crocetta nella bacheca delle vendite e poco importava quanto ci fosse an-dato vicino e quante volte il capo famiglia di turno si fosse fatto dissuadere dalla moglie rompicoglioni. Il suo capo voleva toglier-selo dalle palle e il buco sulla tappezzeria della Sauber fece il re-sto. Per quanto ne sapeva Cultrou, quel grosso buco sul sedile po-steriore poteva averlo fatto lo stesso Zamisky per sbaglio, o il suo protetto, quell’odiosissimo Tonetto che a quanto diceva Zamisky, avrebbe venduto ghiaccio ai pinguini.
    Trevor Cultrou aveva sessantatre anni, sessantaquattro a marzo. Questo ai telefoni era il terzo lavoro della sua vita. Certamente il peggiore. Quando pensava a se stesso, pensava ad un uomo che non si era saputo gestire. Che si era bruciato presto, senza nem-meno gustarsi il momento in cui stava in cima, in cui stava bene. Per un dato periodo Trevor Cultrou aveva venduto assicurazioni e ci aveva ricavato bene. Sulle assicurazioni puoi stare certo, ci puoi credere. Lui stesso ne aveva avute diverse. Macchina, casa e per-sino su se stesso. Anche adesso che aveva venduto casa e macchi-na, non gli restava che la sua vita e il suo corpo, ma se lo teneva assicurato. Le assicurazioni puntano tutto sulla fine, una fine più o meno improvvisa, e la fine è una cosa su cui puoi star certo, su cui ti puoi tenere forte.
    Non vedeva sua figlia da anni, ma un giorno sarebbe stata con-tenta di sapere che nonostante tutto suo padre aveva pensato a lei. Al suo futuro. Il lavoro alle assicurazioni lo aveva mollato do-po aver perso la testa per Luisa Mary. La ragazza del bar sotto casa. Trevor Cultrou si era diplomato a stento e si era messo a la-vorare giovanissimo. Appena maturato il primo pensionamento aveva pensato di dedicare la sua vita al nuovo amore e magari aprire un’attività sua, un bar o qualcosa del genere. Non gli erano mai piaciuti troppo i capi e all’altezza dei cinquanta pensò di es-sere pronto per il grande passo. Bionda e con gli occhiali, bramata dai clienti, Mary, fortuna che non si erano sposati, fortuna che non si era sposato un’altra volta. Dio solo sa se anche stavolta non lo avrebbe voluto, ma lei si era sempre divincolata all’ultimo, forse sapeva fin dall’inizio che non sarebbe durata e che un giorno non sarebbe più tornata per sistemarsi da sua sorella a Catania. Non avevano avuto figli e Dora non aveva avuto fratelli. L’ex mo-glie di Cultrou se n’era scappata in Svizzera con Dora e lui non le aveva più riviste. Mai più. Non ci soffriva. Delle sue storie d’amore non restava traccia, di nessun tipo. Il bar non lo aveva più aperto e Mary era scappata da un giorno all’altro senza nem-meno scrivergli perché. Della sua ex moglie aveva dei ricordi e se Dora era ovviamente una traccia di ciò che c’era stato tra loro, e-rano passati così tanti anni che nemmeno sapeva più che faccia avessero, tutt’e due.
    Così, senza tracce, certe volte lui stesso dubitava della sua storia, di quello che aveva fatto. Da dove veniva Trevor Cultrou?
    Ritorno e buio, caduta lenta e stanca, piombo, cielo, autobus, ora sto camminando, pensò.
    Sui sessanta non aveva più grosse aspettative. Lavorava come venditore di vino in un call center, vendeva vino come i ragazzini. I suo colleghi avevano venti, venticinque anni. Era il più vecchio della squadra, più vecchio di tutti i suoi capi. Troppo vecchio per sentirsi rimproverare per una crocetta messa qui piuttosto che là, troppo vecchio per qualsiasi rimprovero che non venisse da dentro al suo stesso cuore.
    Niente di particolare, a casa non lo aspettava nessuno e si lascia-va i piatti da lavare la sera per sentirsi utile. Si dice, non riman-dare a domani quello che puoi fare oggi. Non rimandare a doma-ni. Se lo facessi, pensava Cultrou, cosa avrei da fare domani?
    Cosa avrei da vivere domani?
    E poi fare i piatti gli era sempre piaciuto, lo rilassava. Il suo lavo-ro lo faceva sentire un ladro. Chi lo aveva assunto era a sua volta un ladro e un bugiardo. Gente cresciuta nel telemarketing. Una lingua affinata per beffare. Era sempre come se ogni singola frase nascondesse una postilla che ti mostravano facendo in modo che tu non ci facessi caso. Tutta la loro vita era vendere. Vendevano illusioni quando ti dicevano che quel lavoro offriva buone prospet-tive di guadagno, vendevano aria quando ti dicevano che quello era il miglior call center del pianeta. Era sempre vendere, anche a se stessi, allo specchio, prendere il pullman e andare a spiegare, ogni giorno sempre uguale, a un nuovo arrivato che vendere vino si riduce solo a una questione di numeri. Trevor Cultrou non era un umanista, ma pensava spesso che se vuoi vedere gli esseri umani, se vuoi vedere di cosa sono capaci, li devi vedere mentre vendono e comprano. Certi venditori userebbero qualsiasi argo-mento, dal sesso al sangue. Vendere è riuscire, è come se tutti fossero dei cavalli scalpitanti nella gabbie alla partenza. Cavalli alti, cavalli bassi, cavalli vecchi, cavalli esperti, giovani. Tutti in gara, vincere, vendere, è come se nella testa si sprigionasse una qualche chimica piacevole. Una chimica di cui ti convinci, che ti serve, tanto quanto l’assegno che ricevi alla fine delle quattro settimane, ti serve per alzare quella cornetta che dopo tre ore di non fatturato pesa come una clava.
    Era due anni che faceva questa cosa che lo ripugnava. Dopo aver venduto assicurazioni per una vita. Dopo aver avuto clienti affe-zionati, che si fidavano di lui, che lo rispettavano, che a natale lo ringraziavano con una buona bottiglia di grappa, o con un cesto di dolciumi. Gente per cui era il signor Cultrou.
    Trevor era un sentimentale, un fatalista. Accettava le cose della vita, anche le brutte. Sapeva arrendersi, aveva il senso della scon-fitta e la capacità di imparare ogni volta che succedeva. Volgendo lo sguardo si vedeva come un pugile. Uno di media gloria che ha anche avuto la sua occasione. Aveva fatto il suo tempo e nessuno se ne ricordava. Sapeva consolarsi delle sciagure altrui, pochi, del resto, si ricordavano di La Motta, o di Oskar de la Oia.
    Non era mai stato un Cassius Clay, e non serbava rancore. Quan-do era stato lui a colpire la vita aveva saputo incassare, ora toc-cava a lui. Era inutile ascoltare i consigli e detergere le ferite, a-prirgli l’occhio, il combattimento era destinato a finir male. A po-co a poco annegava, boccata a boccata, annegava. Si accendeva le futura al lavoro, anche se non si poteva. E che gli venisse pure il cancro, e che venisse ai suoi colleghi. Lì non licenziavano mai nessuno. Erano scaltri, era un viavai di giovanotti senza volto, troppi mollavano prima della fine del mese, colavano a picco ap-pesi lungo il filo del telefono. Per tutti era solo un lavoretto di passaggio. Ti lavoravano piano coi loro non ti preoccupare e ma certamente, i può succedere, i può succedere ma che non riaccada, non riaccada mai più.




    Trevor Cultrou non poteva sapere che nel millenovecentonovan-taquattro, mentre Baggio rompeva l’equilibrio di coppe planetarie tra l’Italia e il Brasile, in una Pasadena così bollente che anche il pallone aveva i crampi, lavare i piatti gli avrebbe salvato la vita. Era così depresso per la storia di Lisa Mary che aveva proprio de-ciso di farla finita. Era così ossessionato dai rumori di partita e macchine che provenivano dalla strada che aveva deciso di but-tarcisi dentro, di tuffarcisi truccando la strada. Tutto perché lei si sentisse in colpa. Così andò in camera sua e si vestì. Tutto som-mato era comunque uscire. Siccome nella sua vita aveva sempre odiato che qualcuno potesse dargli del vecchio rimbambito, si era sempre curato molto. Non si era mai permesso il lusso di trascu-rarsi, di uscire in disordine, nemmeno sul pianerottolo. Così per-sino per suicidarsi decise di darsi una ripulita. Vestito, mentre si dirigeva verso il balcone, vide i piatti sporchi nel lavandino. L’unica spiegazione che Trevor Cultrou riesce a dare per quanto successe è che forse non voleva farlo, non con tutto se stesso, al-meno. E così si fermò, aprì il rubinetto dell’acqua calda e non si uccise mai più. Fu come un ripensamento, come uno scordarsi di tutte le cose per cui prima sembrava valerne la pena. Si stava ri-lassando. Non gli era mai dispiaciuto farlo, e questo era sempre sembrato strano a Lisa Maria. Era un uomo strano, mai vera-mente burbero, mai veramente capace di mostrare cattiveria. A Lisa Maria non era mai capitato un uomo come Trevor Cultrou.
    Aveva occhi celesti, alto e magro, con un certo fascino da uomo di-stinto. Lo aveva amato, sicuramente, nonostante tutto. Lisa Ma-ria non aveva mai veramente capito quanto facesse parte della sua vita. Un uomo cresciuto senza padre, a casa di certi zii, che di tanto in tanto sembrava nascondersi in spazi di siderale freddura. Una padre scomparso nella notte, quando lui era molto piccolo, ucciso dai partigiani per motivi non legati in nessun modo alla po-litica. Una deportazione a cui non aveva assistito, ma che attra-verso i continui racconti aveva influito sul suo carattere. Trevor Cultrou era mezzo francese. Non aveva studiato molto, si era di-plomato e non aveva continuato. Si era messo subito a vendere. Vendere è una cosa che ti svuota, forse perché si ha a che fare con le cose. Quando pensava a se stesso, quando rimuginava sulle sue competenze, Trevor Cultrou si ritrovava un pugno di mosche. Quello che davvero aveva imparato è che gli uomini non cercano fama e fortuna, cercano invece quell’aria d’importanza dovuta ad una particolare competenza che viene loro universalmente ricono-sciuta e per la quale ricevono la giusta fama e la giusta fortuna. Questa è la realizzazione. Trevor Cultrou sarebbe pure potuto es-sere ricco, ma cosa sapeva fare lui? Cosa aveva imparato a fare in tutti quegli anni? Niente di niente. Non aveva fatto niente che fosse destinato a restare. Vendere non porta al restare, anche se diventi particolarmente ricco, perché vendere è disfarsi delle cose. È essere un tramite per attivare un trasporto di oggetti. Tramu-tarli in soldi. Anche quando vendeva assicurazioni era la stessa identica cosa. Vendere vino, oro o sicurezza e speranza, è la stessa cosa. E’ niente. Per se non gli restava che il suo corpo, che a dirla tutta certe volte nemmeno sentiva davvero suo. I lunghi piedi, le mani nodose e quegli occhi da Cultrou che non aveva mai saputo usare con le donne. Ricordava la casa dello zio come una specie di comune, oltre a lui e sua madre c’erano altre sei persone. Lì si sentì sempre un rifugiato. Non per colpa loro, ma per colpa sua. Aveva inghiottito rabbia perché pensava che la pacatezza fosse sintomo di maturità. Alla fine aveva perso il senso genuino per la rabbia. Capiva che era strano e certe volte fingeva di arrabbiarsi, ma lo faceva per le cose sbagliate e poi si vedeva che non c’era da prenderlo troppo sul serio. La rabbia non era un sentimento che gli si addiceva. Per Trevor Cultrou c’era sempre pronta la malin-conia, l’amarezza e il rimpianto. Questi erano sentimenti che davvero erano capaci di rapirlo, che lui conosceva bene, che sape-va assaporare. Sapeva come sentirli fino in fondo. Ormai si era rassegnato a finire i suoi giorni nella società dei telefoni, anche se non sopportava la sua vicina di scrivania. Questa prediligeva l’approccio sessuale. A pensarci, utilizzava la stessa tattica di tut-te le pubblicità del mondo. Il sesso fa vendere, questa non è una novità. E lei vendeva più di Cultrou. Non riusciva a sopportarla. Non era quello che faceva, era il modo. Quel suo accento romagno-lo, quel suo modo di fare la porca ad alta voce. Come faceva a non imbarazzarsi. Non gli riusciva di non trovarla ridicola. Contatta-va solo clienti maschi e molti ci cascavano. Quel giorno Trevor Cultrou era stato ripreso alquanto duramente dal suo direttore di reparto per una questione di crocette. Bisognava compilare un fo-glio giallo alla fine di ogni telefonata, separando i contatti utili da quelli inutili. Trevor Cultrou aveva cercato di spiegare le sue ra-gioni, ma quel pezzo di merda lo guardava come se fosse un vec-chio rincoglionito. Non era facile alla rabbia, ma non sopportava che gli si desse del rimbambito. Aveva trattenuto la rabbia come sempre mentre lo sgridavano e non era riuscito a dare la sua ver-sione. Non aveva più l’età per certe cose, non era più un bamboc-cio e non poteva sopportare i rimproveri, da nessuno. Così quando dopo qualche minuto che aveva passato a rimuginare, sorprese la sua odiata collega ad imbrogliare nella selezione delle schede, non gli riuscì di calibrare le sue emozioni ed esplose. Le scaraventò addosso tutta la frustrazione che aveva accumulato prima. Sape-va che dopo se ne sarebbe pentito, ma infierì. Dopo tutto i suoi metodi di approccio non erano meno imbarazzanti di quell’altro che ricattava psicologicamente i clienti dicendo che se non com-pravano da lui sarebbe finito in mezzo a una strada, che se loro non bevevano lui non mangiava. Eppure era lei che aveva a tiro e su di lei colpì. Ripensandoci a casa, Cultrou si sorprese della scar-sa reazione della ragazza, quasi sibilò un come si permette, ma senza aggiungere altro. Fu una frase che le sfuggì, quasi per scu-sarsi, lui le aveva dato della puttana e lei era rimasta immobile, freddata, lo disse con una remissività che non si addiceva alle cir-costanze. Era come se avesse recitato una battuta in cui non cre-deva. Di cui non era convinta. Se lei avesse reagito con la giusta veemenza, Trevor Cultrou si sarebbe ritirato nel suo guscio e for-se si sarebbe dato per vinto. Tanto si sentiva più forte e nel giu-sto, quanto lei si mostrava debole. Alla fine si stancò e non essen-do abituato a vedersi nei panni dell’accusatore, presto si sentì ri-dicolo. Tornò alla sua scrivania e tutto sembrò perdere di signifi-cato. Evitò di chiedere scusa, anche se una parte di lui blanda-mente lo esigeva. Alla fine delle quattro ore pomeridiane, prese le sue cose e se ne andò senza salutare nessuno, scuro in volto e vi-stosamente pensieroso. Se fosse scomparso ingoiato da quella not-te normale, al lavoro lo avrebbero ricordato di cattivo umore, non proprio diverso dal solito, solo un po’. Ma non sparì.



     
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