il mare - racconto

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    Lascio che le cose mi portino altrove

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    Si incamminò lenta, verso la porta aperta.
    La luce del sole colpiva i suoi occhi, ferendola. Era stato un attimo, e poi tutto era scivolato via.

    I suoi passi risuonavano sul selciato asciutto, secco. Uno dopo l'altro dopo l'altro, verso una decisione che non conosceva nemmeno lei. Una direzione improbabile, e della quale era ancora non del tutto certa.
    Con gli occhi osservava le pareti delle case che creavano la via. Perché una via, senza case intorno, non è una vera via.
    E una strada è un confine, è un tracciato che separa un luogo dall'altro. Questo lato di strada e quel lato.
    Una casa, un palazzo, un isolato.
    La via che percorreva era in leggera salita, e girava più volte su se stessa.
    Come una pazza. Come una trottola.
    Camminava, e il sole batteva sulla sua testa, scaldando i capelli biondi, che lanciavano riflessi ondeggianti. Ad ogni passo un nuovo riflesso. Le ombre le scivolavano addosso.

    Le braccia lungo i fianchi, molli. Le mani libere, le dita si muovevano nell'aria come a scrivere su un'immaginaria tastiera, o a suonare un pianoforte invisibile.
    Si guardava intorno, nel caldo silenzioso, cercando gli odori di quel luogo sconosciuto.

    Passo, dopo passo: parietaria e sale. Piano piano negli interstizi tra le pietre iniziò a scorgere la sabbia, e arrivata sul culmine della salita, un panorama nuovo si aprì ai suoi occhi.

    Alti palazzi antichi, con ampi balconi sospesi, piante di fiori appoggiate qua e là, a vari livelli. La strada si faceva stretta: stretta tra le case, vicine le une alle altre. Odore di panni stesi e di luoghi vecchi.
    Lontano, in fondo ad una scalinata, c'era lui: uno spicchio minuscolo, niente più che una striscia azzurra.

    Prese a scendere lentamente tra i gradini di pietra. I suoi scarponi grigi procedevano sicuri. Il suono ovattato di passi che calpestavano ombre silenziose risuonava per quei palazzi. Si fermò in ascolto. Televisioni accese, grilli e cicale, gabbiani, un vocio lontano, spento, e il suono delle onde.
    Odore di cibo e suoni di posate che cozzavano nei piatti e nei denti di gente felice, arrabbiata, malinconica, incazzata, neutra.

    Continuò la sua discesa, sentendo il sudore sulla pelle, una goccia lungo la schiena, sotto la maglietta azzurra, scivolò giù.
    Scalino dopo scalino scese, sempre con molta calma, come se non avesse fretta. Appoggiò una mano sull'intonaco rosa, sbiadito, di un palazzo, sentendo il calore, e si immaginò lucertola, ad assorbirlo.
    Attraversò la strada senza guardare, e poi il marciapiede, e poi superò un muretto di rocce irregolari, messe l'una sopra l'altra con cura.

    Affondò i suoi scarponi nella sabbia bianca. Le gambe esili, bianche, faticavano non poco a spostarla su quella morbida superficie, ma sentiva i granelli resi incandescenti dal sole allo zenit.

    Camminò sulla battigia, quieta, verso est.
    Dietro di sé lasciava profonde impronte che le onde lavavano via in due o tre passate. Il suo sguardo basso osservava sassolini e conchiglie, e quelli strani fori neri che lasciano le onde quando si ritirano.
    Le sue dita si chiusero su un sasso perfettamente rotondo. Lo portò al viso, per guardarlo più attentamente, osservando il bianco e il grigio che si mescolavano in linee irregolari.
    Poi lo lanciò, verso il largo.

    Continuò a camminare per la spiaggia deserta, ormai lontana dal paesino. La sabbia era sporca di alghe e rami, e cespugli di mirto e ginepro si spingevano fin quasi a lambire l'acqua. Guardava la sua ombra delinearsi sempre più lunga davanti a sé.
    Scrutò le rare nuvole, bianche, che si stagliavano nell'azzurro limpido del cielo. Guardò indietro, verso il sole: quasi non riusciva più a notare il paese che aveva lasciato. La porta che aveva attraversato.

    Si sedette, togliendosi le scarpe, e lasciò che le onde le bagnassero i piedi, e le gambe.
    Le mani affondavano nella sabbia bagnata, ed iniziò a giocare un po', persa nelle forme dei minuscoli granelli. Creò strane sculture, che le onde provvedevano a distruggere, poi abbandonò la testa sul bagnasciuga e iniziò a piangere.
     
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    ritmo molto cadenzato come il ritmo delle onde...
    mi torna poco la fine: la tensione crescente prima di un pianto non si avverte, anzi è tutto molto calmo e rilassato, quindi mi stona un po'.
    a metà affiora la presenza umana (lui) che sembra essere l'obiettivo ma poi sembra dimenticarsi che esiste... è voluto?
     
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    volutissimo. voluta la tensione tenuta nascosta.... le lacrime devono essere una sorpresa, qualcosa che sconcerti il lettore. è ovvio che sono legate a lui. che la fuga sembra calma, con l'osservazione, l'ascolto di quello che c'è intorno... delle piccole cose come i profumi delle case, i suoni della tv, i sassolini... tutto va a divergere l'attenzione dalla tensione iniziale e che affiora a tratti... una quiete simulata fino all'esplosione, lontana da tutto il resto.
    perlomeno questo è quello che volevo trasmettere io...
     
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    che la fuga sembra calma, con l'osservazione, l'ascolto di quello che c'è intorno... delle piccole cose come i profumi delle case, i suoni della tv, i sassolini...

    questo si evince perfettamente anzi l'hai reso benissimo!
    meno chiaro è il legame con questo lui, a dire la verità, almeno a me proprio non è arrivato...
     
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    il legame è vago apposta. può essere un fidanzato, un assassino, un datore di lavoro testa di cazzo, un parente, un avvocato.... è qualcosa di negativo da cui fuggire, staccarsi, allontanarsi.

    insomma, non lo so bene e non è importante. è qualcuno che incarna un mondo che a un certo punto, di punto in bianco, ti rendi conto che non ti appartiene più. c'è un distacco improvviso e nel cammino e nell'allontanamento ne sei sempre più consapevole, fino al sollievo/disperazione finale,
     
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4 replies since 13/10/2011, 18:04   99 views
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